Terminologia in base all’età e al gruppo di appartenenza degli animali.

Cucciolo, pulcino, pullo, giovane, prole, maturo, ninfa, neanide? Come si potrebbero chiamare una salamandra, un topo o un dinosauro appena nati senza cadere in errore? Qual è il termine più appropriato per definire un animale in relazione alla sua età? Facciamo un po’ di chiarezza.

Cuccioli di Canis lupus, il lupo grigio, al Tiergarten Schönbrunn (Zoo di Vienna), Austria.

Be’, non c’è una risposta semplice. Cominciamo col dire che nel parlare comune vengono usati molti termini impropri, ma che vengono comunque accettati per semplicità. Personalmente penso che i termini più ampi siano “immaturo” o “piccolo” che, anche se a volte suonano male, sono corretti in tutti i casi, e non si sbaglia. Il termine contrapposto è “adulto” o “maturo” (sottinteso “sessualmente”), inteso cioè come capace di riprodursi. Esistono eccezioni (gli esemplari delle caste non riproduttive degli insetti sociali, ad esempio), ma in generale come regola funziona.
Ora vediamo un po’ di termini specifici per gruppo, come quelli proposti all’inizio:

N.B. Per non far confusione, non sto considerando eventuali termini relativi alla zootecnia o alla fauna domestica in generale, che sono talvolta più articolati per varie questioni e fanno riferimento ad aspetti come l’età, il sesso, lo sviluppo di alcuni elementi anatomici, il numero di parti etc..
È anche vero che alcuni termini zootecnici sono presenti anche nello studio biologico dei selvatici. Un esempio è il termine “cucciolo”, che fa chiaramente riferimento alla cuccia, e quindi al cane (Canis lupus familiaris), ma che è ora esteso a tutti i mammiferi.
Questa nota vale per lo più per mammiferi e uccelli.

  • Classe Mammalia: “cucciolo” è sempre corretto, ma molti gruppi hanno termini più specifici (esempi: “puledro” per il genere Equus, “agnello” per il genere Ovis, “vitello” per l’intera sottofamiglia Bovinae, etc.).

  • Classe Aves: “Si preferisce usare il termine “pulcini” quando questi nascono già abili a muoversi e nutrirsi autonomamente, mentre per “pulli” ci si riferisce invece alla prole inetta, ovvero a quei nidiacei che hanno bisogno di cure da parte dei genitori per diversi giorni prima di involarsi” (fonte: LIPU). A sua volta “nidiaceo” significa che il piccolo è ad uno stadio in cui dovrebbe stare nel nido. Inoltre in maniera ancora più specifica, il termine “pulcino” si riferisce ai piccoli dell’ordine Galliformes. Altro termine specifico è ad esempio “anatroccolo” per i piccoli della sottofamiglia Anatinae.
  • Classe Reptilia: “piccolo” o “cucciolo”. Non ci sono termini più specifici, considerando anche che più delle altre classi di Vertebrata i piccoli e perfino i neonati sono molto simili agli adulti, anche relativamente alle proporzioni anatomiche.
  • Classe Amphibia: “immaturi”, “girini”, ma anche “larve” è corretto.
  • Superclasse Osteichthyes (pesci ossei) esclusi i Tetrapoda (gruppo che comprende le classi precedenti): qua si va per stadi. Dall’uovo nasce la larva, che come prende una forma simile all’adulto si può definire “avannotto”, poi “giovanile” e poi “adulto”. Anche qua con “immaturo” non si sbaglia. Inoltre “avannotto” era classicamente usato solo per i pesci d’acqua dolce, ma è ora corretto per tutti.
Uovo non ancora schiuso di Scyliorhinus canicula, il gattuccio. I gusci vuoti delle uova di alcuni pesci cartilaginei vengono comunemente chiamati “borsellini delle sirene”.
  • Classe Chondrichthyes (pesci cartilaginei) e infraphylum Agnatha (pesci privi di mandibole): “piccolo” o “immaturo”. In questi taxa i giovani sono come adulti in miniatura.

Questo molto grossomodo per quanto riguarda il phylum Chordata. Per gli altri phyla del regno Animalia i termini generici “immaturo” o “larva” vanno generalmente bene. Un discorso a parte merita però il phylum Arthropoda, e in particolare gli insetti (tratto giusto loro perchè son quelli con variabilità più ampia per questo aspetto, ma anche sugli altri gruppi ce ne sarebbe da dire).

  • Classe Insecta: lo sviluppo degli insetti è complesso e articolato in stadi, diversi a seconda dei raggruppamenti. Ora, sorvolando sulla cladistica, che però darebbe la miglior visione d’insieme (il discorso diventerebbe molto più lungo), e semplificando moltissimo (veramente moltissimo!), abbiamo insetti che nascono come larve, e insetti che nascono come neanidi.
    – Le larve sono le forme giovanili che differiscono sostanzialmente dalla forma adulta. Queste attraversano diversi stadi, che a loro volta prendono nomi diversi a seconda del gruppo, per poi impuparsi ed emergere come adulto (es. Diptera).
    Un termine specifico è ad esempio “bruco”, che si riferisce alle larve dell’ordine Lepidoptera.
    – Le neanidi invece sono le forme giovanili degli insetti che nascono già abbastanza formati da assomigliare agli adulti (es. Orthoptera). Anche qua, ci sono diversi stadi con vari nomi, per arrivare all’ultimo stadio preimmaginale (ovvero prima di diventare adulto), chiamato “ninfa”, che nelle specie alate in genere presenta già gli abbozzi alari. Attenzione col termine “nymph”, che in italiano si traduce “neanide”, e non “ninfa”, mentre in inglese racchiude entrambi i significati.
    In ogni caso, negli insetti, l’adulto prende il nome di “immagine” (imago). Solo nella fase adulta gli insetti presentano le ali formate (che non significa che tutti gli insetti adulti abbiano le ali, molte specie non le hanno, ma quando presenti sono formate solo nella fase adulta). Eccezione è l’ordine Ephemeroptera, che completa lo sviluppo delle ali già allo stadio di subimmagine.
  • Infine un ultimo appunto su una parola che viene spessissimo usata a sproposito: “verme”. Questo termine si riferisce ad altri phyla e non ha niente a che fare con gli insetti e gli artropodi in generale. E, per inciso, anche i loro piccoli si chiamano “larve”.
Larva di Capnodis tenebrionis, Coleoptera Buprestidae.
Adulto di Capnodis tenebrionis,
Coleoptera Buprestidae.
Neanide femmina al secondo stadio di Tettigonia viridissima, Orthoptera Tettigoniidae, su Phleum pratense.
Femmina adulta di Tettigonia viridissima,
Orthoptera Tettigoniidae.

Altri termini comuni sono:
– “Giovane”, che ha però valenza relativa da specie a specie, e fa riferimento all’aspettativa di vita.
– “Prole”, che è generale e può essere usato in tutti i casi facendo però sempre riferimento ai genitori.

Articolo nato da una domanda di Lia Calvisi sul gruppo Facebook Regno Animalia – Identificazioni e discussioni .
Testo di Mauro Mura.

L’argia, tra scienza, tradizione e superstizione.

Articolo di Mauro Mura,
sito https://regnoanimalia.altervista.org/largia-tra-scienza-tradizione-e-superstizione/

Latrodectus tredecimguttatus (Rossi, 1790), è un ragno (ordine Araneae) appartenente alla famiglia Theridiidae e al genere Latrodectus, nel quale vengono classificati i ragni noti comunemente come “vedove”.

Etimologia e nomi comuni.
Il nome latino significa “prigioniero mordace con 13 macchie”, in riferimento alla pericolosità del morso e alla livrea. Il nome italiano di questa specie è “malmignatta”, o “vedova nera mediterranea”, da non confondere con la congenere nordamericana Latrodectus mactans, la “vedova nera americana”. Alla specie sono state attribuite anche varie denominazioni dialettali. Nell’alto Lazio veniva anticamente chiamato “ragno volterrano”, “falange volterrana” o “bottone”. In Sardegna “argia” o “arza”. Sempre in alcune zone della Sardegna è comune che con questi nomi vengano erroneamente indicati anche alcuni Hymenoptera della famiglia Mutillidae, più propriamente le “formiche di velluto”, coi quali questo ragno condivide una livrea vagamente simile. Probabilmente il tutto è frutto di un antico fraintendimento.

Femmina adulta.
Credits: Instagram post by SpiderShots • Apr 18, 2014 at 3:06pm UTC

Caratteristiche.
Il suo aspetto è caratteristico, tanto da rendere impossibile confonderla con altre specie dello stesso areale. È presente un marcato dimorfismo sessuale. La femmina raggiunge dimensioni molto maggiori del maschio, arrivando ai 15 mm, mentre il maschio, molto più affusolato, tocca i 7 mm. Entrambi hanno circa il triplo della lunghezza in legspan, e le 4 zampe mediane sono più corte delle altre. Principale caratteristica della specie è il corpo nero con le 13 macchie sull’opistosoma (addome), rosse nelle femmine, bianche, gialle o rosate nei maschi, per entrambi i sessi talvolta bordate di bianco. Questa è chiaramente una livrea aposematica, ovvero un avvertimento della sua pericolosità rivolto ad eventuali predatori.
Nonostante l’ampia diffusione, la specie è monotipica, cioè non presenta sottospecie. Le differenze tra esemplari sono perciò unicamente dovute a variabilità individuale.

Maschio adulto.
Fonte: https://forum.aracnofilia.org/topic/20236-santa-teresa-gallura-ot-latrodectus-tredecimguttatus/

Distribuzione.
L’areale è molto vasto, coprendo tutte le coste del Bacino del Mediterraneo espandendosi fino all’Asia centrale, dove però risulta meno comune. In Italia è largamente diffusa, dalla Liguria, seguendo per Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna e molte isole minori di queste regioni. Ci sono anche rare segnalazioni per altre regioni e la presenza del suo habitat ideale fa supporre che sia più diffusa di quanto si crede.

Diffusione di Latrodectus tredecimguttatus. La specie non è presente in tutta l’area dei paesi indicati.
Fonte: https://www.animali-velenosi.it/ragni/malmignatta-latrodectus-tredecimguttatus/

Habitat.
Nonostante non sia una specie sinantropica può raramente essere rinvenuta nei pressi delle case di campagna, ma il suo habitat d’elezione è la bassa macchia mediterranea, meglio se intervallata da zone aride e pietraie. Non disdegna stabilirsi anche in muretti a secco o nella corteccia porosa di Olea europaea (l’ulivo o olivastro).

Biologia alimentare.
Tesse una tela irregolare molto robusta che spesso tradisce la sua presenza all’entrata della tana. La tela ha diverse funzioni di cui la principale è implicata nella cattura delle prede, principalmente insetti di taglia anche di poco superiore alla sua. Quando questi si impigliano, il ragno li morde ripetutamente per ucciderli col veleno. Il veleno costituisce gli stessi succhi gastrici del ragno, il quale successivamente sugge i tessuti liquefatti delle prede, lasciandone solo gli esoscheletri vuoti, che si accumulano così nei pressi della ragnatela.

Coppia fotografata a Santa Teresa di Gallura. Maschio a sinistra e femmina a destra. In alto sono anche visibili i resti di alcune formiche predate.
Fonte: https://forum.aracnofilia.org/topic/20236-santa-teresa-gallura-ot-latrodectus-tredecimguttatus/

Biologia riproduttiva.
I maschi di questo genere quando sono alla ricerca di una femmina non mangiano. Di solito formano una piccola ragnatela nella quale depongono una goccia di sperma. Dopo averne prelevato un po’ con degli speciali contenitori presenti sui loro pedipalpi, posizionano lo sperma nei genitali della femmina. Spesso l’accoppiamento termina con la femmina che divora il maschio (da cui l’epiteto “vedova”). Questo fornirà un surplus proteico per la produzione delle uova. La femmina depone fino a 750 uova divise in gruppi a formare degli ovisacchi che vengono appesi alla tela. L’incubazione dura 14 giorni, dopo i quali i neonati si disperdono. Nei casi in cui sono impossibilitati a farlo, tra i piccoli è frequente il cannibalismo. I maschi raggiungono la maturità in 70 giorni, le femmine in 90. I maschi hanno circa 2 mesi di vita adulta, le femmine arrivano ad un anno.

Ovisacco poco dopo la schiusa e poco prima della dispersione.
Fonte: https://forum.aracnofilia.org/topic/20236-santa-teresa-gallura-ot-latrodectus-tredecimguttatus/

Rapporti con l’uomo.
È una delle 2 uniche specie che hanno un morso di rilevanza medica in Italia (assieme a Loxosceles rufescens, il ragno violino).
La sindrome derivata dal suo morso è chiamata “latrodectismo” ed è legata alla cultura agropastorale. Infatti ci sono molte prove che fosse frequente per chi lavorava in campagna venire a contatto con questo ragno, magari nei momenti in cui ci si riposava nei tipici luoghi che fungono da tana per questi animali. Il veleno è neurotossico e tra i sintomi più comuni sono compresi febbre, forte sudorazione, cefalea, crampi muscolari, in particolare addominali e nausea. Può aggravarsi fino a portare a sintomi cardiologici e renali, allo svenimento o al coma e, molto raramente, alla morte. Il quadro clinico è più grave se il soggetto morso è un bambino, per una questione di massa corporea, un anziano, una persona già debilitata o allergica ad una componente del veleno.
I danni vengono smaltiti nel tempo senza necessità di un antidoto, e si arriva alla guarigione completa in poche settimane o mesi a seconda della gravità. Nonostante questo, in passato si son venute a creare delle credenze secondo le quali, al mostrarsi di questi sintomi si dovesse ricorrere ad alcune pratiche tradizionali. Il malato veniva sotterrato per favorire la sudorazione, che avrebbe dovuto dissipare la malattia, oppure il malato avrebbe dovuto ballare fino allo sfinimento per raggiungere lo stesso scopo. Inutile dire che spesso ciò aggravava lo stato di salute del poveretto, ragion per cui, scomparsa la terapia tradizionale, la mortalità derivata da questa situazione è oggi estremamente inferiore. Queste pratiche erano anche legate ad aspetti esoterici e, più che una cura, spesso prendevano i toni di un esorcismo musicato. Gli aspetti culturali e psicologici del fenomeno sono stati studiati in modo approfondito dall’antropologo culturale Ernesto De Martino intorno al 1950.
Le false credenze relative a questo ragno non si fermano alla sfera medica, ma includono anche un importante errore zoologico. Infatti la responsabilità del suo morso veniva attribuita ad altre specie con cui condivide parte dell’areale e habitat, e che, date le dimensioni e le abitudini girovaghe, tendono ad essere maggiormente notate: i ragni della famiglia Lycosidae, e in particolare Lycosa tarantula, la vera tarantola o taranta. Infatti questi ragni hanno un morso decisamente più doloroso, data la dimensione dei cheliceri, ma completamente innocuo sotto il profilo medico. La stessa credenza ha generato il nome delle tarantelle, danze tipiche del sud Italia, come la pizzica salentina, che mimano le convulsioni del malato di latrodectismo, che in alcune zone veniva originariamente ed erroneamente chiamato appunto “tarantismo”.

Una fase del rituale.
Fonte: http://www.psychiatryonline.it/node/7667

Testo di Mauro Mura.

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